Principi di chiarezza e sinteticità degli atti, modalità di svolgimento delle udienze, organizzazione del lavoro del giudice
Non ho mai conosciuto Daria Sbariscia. Qualche settimana l’avv. Goldstaub mi ha ricordato che è stata una persona, una collega, che ha svolto il ruolo di magistrato di riferimento per l’informatica, nel settore civile, in un tempo in cui era molto più difficile esserlo rispetto a ora, per le resistenze che la nuova modalità di lavoro incontrava in più settori.
Pensando a questo, cercherò di parlarvi del tema che mi è stato assegnato: principio di chiarezza e sinteticità degli atti, modalità di svolgimento dell’udienza, organizzazione del lavoro del giudice alla luce delle nuove tecnologie e previsioni normative.
Inizierei dall’art. 121 cpc, che dice:
“Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”
Proprio in base alla costruzione sintattica dell’articolo, il principio di chiarezza e sinteticità deve ritenersi subordinato al principio della strumentalità delle forme al raggiungimento dello scopo.
Queste due nozioni sono dunque strumentali (una strumentalità di secondo grado, si potrebbe dire), rispetto alla strumentalità dell’atto processuale rispetto al suo scopo. Tale principio, sovraordinato, conforma, di conseguenza, il contenuto della chiarezza e della sinteticità. Dipende dall’atto, da cosa dobbiamo fare con quell’atto.
In questo ordine di idee, a mio modo di vedere, deve essere analizzato il contenuto del DM n. 110 del 7 agosto 2023, previsto dall’art. 146 disp att cpc, che si occupa, tra l’altro, all’art. 2, dei criteri di redazione degli atti processuali, all’art. 3 e seguenti dei loro limiti, norme il cui contenuto non riepilogo per brevità.
Vi farei subito un esempio per intenderci meglio: se tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico, un atto introduttivo di 79.999 caratteri senza contare gli spazi, cioè circa 40 pagine, senz’altro rientrante nei limiti posti dall’art. 3 del DM, è sintetico.
Certo, non è sintetico di per sé, se prendiamo il significato di sintesi in un vocabolario qualsiasi. Ma è sintetico in relazione a ciò che si deve fare con quell’atto, evidentemente. Lo è dal punto di vista giuridico.
Questa strumentalità dovrebbe rassicurare gli operatori del diritto, specialmente se si considera che:
- i limiti dimensionali non operano per le cause di valore superiore a 500.000,00 euro (mentre i criteri di redazione dell’atto processuale di parte di cui all’art. 2 hanno un ambito di applicazione generalizzato);
- nella determinazione dei limiti non si tiene conto dell’intestazione e delle altre indicazioni formali dell’atto, tra cui un indice e una breve sintesi;
- l’art. 5 dello stesso DM prevede deroghe per le cause di valore inferiore (particolare complessità della controversia; la proposizione di una domanda riconvenzionale, di una chiamata di terzo, di un’impugnazione incidentale, e altre ipotesi in cui deve ritenersi giustificato il superamento dei limiti previsti dall’articolo).
Una seconda rassicurazione poggia su un dato statistico: quanti atti introduttivi o comparse conclusionali superano, oggi, le quaranta pagine rispetto al totale di quelli che leggiamo?
Forse dipende dai tipi di contenzioso, ma penso che si tratti di una percentuale contenuta. Il paradosso di questo limite quantitativo posto dal DM n. 110 è che i professionisti potrebbero perfino sentirsi autorizzati a largheggiare, purchè non superino le 40 pagine.
Il punto è però a mio modo di vedere un altro: il problema di un ipotetico atto introduttivo di 38 o 52 pagine in cui si deduce un unico vizio del bene compravenduto non è che non è sintetico, è che non è chiaro: verosimilmente, per la maggior parte delle pagine non si capirà quello che c’è scritto, perché girerà sempre attorno allo stesso concetto, vanificando il principio del raggiungimento dello scopo.
D’altra parte, anche per dare un senso alla prescrizione della chiarezza (non è sostenibile che prima del DM n. 110 il diritto processuale civile italiano guardasse con favore agli atti scritti in modo non chiaro), occorre ritenere che la sinteticità va senz’altro bene, purchè non sia a scapito della chiarezza, che mi pare la questione centrale, se lo scopo da raggiungere è la comprensione, su questo dovremmo trovarci d’accordo (e penso che possiamo trovarci d’accordo sul fatto che un indice, una sintesi e un accurato riferimento ai documenti prodotti aiutino la comprensione).
Nel caso di superamento dei limiti dell’art. 3 del DM, è previsto che il difensore esponga sinteticamente nell’atto le ragioni per le quali si è reso necessario il superamento.
Quindi, se l’atto è di 72 pagine (magari tutte indispensabili, non è questo il punto) dobbiamo leggere un paragrafo (sintetico, ci mancherebbe) sul perché è stato necessario scrivere 72 pagine (quindi in realtà a essere indispensabili erano solo 71). Non riesco a capire cosa tutto questo abbia a che fare con la tutela giurisdizionale dei diritti.
Infine, se l’atto è di quarantuno pagine non è invalido, per fortuna.
La violazione del limite può però essere valutata dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo.
Questa previsione, mi rendo conto, è meno rassicurante.
Davvero avevamo, abbiamo, bisogno di un nuovo fronte di contenzioso sulla regolazione delle spese a esito di una valutazione stilistica? Avevamo bisogno di riunioni di sezione, o di Tribunale, per tracciare un orientamento comune su questo?
Sul potere discrezionale che ci conferisce l’art. 146 disp. att. cpc., mi sentirei dunque di dire, non usiamolo. Non si avvicina neanche lontanamente a ciò che noi oggi siamo chiamati a fare, sul punto cercherò di tornare alla fine, esponendoci piuttosto all’ennesima tentazione di irrogare sanzioni (e, dunque, di appesantire, di complicare) laddove invece, almeno per quanto riguarda i giudici civili, siamo chiamati a riequilibrare, a semplificare.
Anche con riferimento all’articolazione degli atti di parte, alla loro confezione strutturale, grafica, di cui l’art. 2 del DM n. 110 traccia una falsariga, direi che vale lo stesso discorso; peraltro io non ricordo di aver mai visto trattata una questione di giurisdizione o di competenza alla fine di un atto, quindi intenderei l’art. 2 come un vademecum, un avviso ai naviganti, sempre utile ma non “pesante”, specie se non presidiato dalla sanzione di una regolazione delle spese che ne tenga conto.
A questo punto, vorrei provare a suggerire una lettura un po’ diversa di questi principi, chiarezza e sinteticità, che appunto, probabilmente, il legislatore ha inteso dettare in termini più orientativi che prescrittivi.
Non che l’orientamento sia meno impegnativo della prescrizione. Ci pone infatti la domanda del dove, della meta verso cui orientarci. Vi propongo di intravederla in questo.
Nella prima delle sue Lezioni Americane, del 1985, dedicata alla leggerezza, Italo Calvino scrive
“Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa”.
L’unico eroe capace di tagliare la testa della Medusa, nota Calvino, è Perseo, che non rivolge il suo sguardo sul volto di Medusa ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo.
Accerchiato dalla pesantezza, Calvino non suggerisce fughe nel sogno o nell’irrazionale, ma propone di “guardare il mondo con un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”.
Non credo di arrischiarmi troppo nel sostenere che noi tutti, giudici e avvocati, abbiamo a che fare con la testa della Medusa, con la pesantezza del mondo, con i conflitti, spesso atroci, terribili, che lo abitano. Mi domando se, a quasi quarant’anni di distanza dalle Lezioni Americane, non possa valere anche per noi l’invito di Italo Calvino, se non per neutralizzare, almeno per arginare questa pesantezza.
In questo senso, chiarezza e sinteticità si pongono come strumenti di una leggerezza, che non deve essere intesa come vacuità, ovviamente, ma come unico metodo proficuo di trattare la pesantezza, ovvero farla propria attraverso una visione indiretta, intuitiva, ma non per questo meno efficace.
Di nuovo, richiamerei il principio della strumentalità delle forme, di tutte le forme, rispetto allo scopo dell’atto e, in una prospettiva più ampia, rispetto a ciò che siamo chiamati a fare oggi.
Cosa siamo chiamati a fare oggi? Provo a rispondere in negativo. Sicuramente a non appesantire, lo stile dei nostri scritti, lo svolgimento del processo, la vita delle persone, la pratica quotidiana del nostro mestiere.
E qui arrivo all’altro tema che mi è stato assegnato. Immaginiamo una causa civile ordinaria, le cui parti sono assistite da professionisti di Lecce e di Milano. Dobbiamo discutere di rescissione di un contratto per lesione. La scelta organizzativa più leggera, nel senso sopra chiarito, è l’udienza su Teams, possiamo dirlo senza girarci troppo intorno, anche se si possono verificare inconvenienti tecnici, anche se per garantire la stessa qualità della comunicazione, per collegarmi a quanto detto dal Presidente Liccardo, occorre semplicemente avere qualche accortezza in più.
Ma improntata alla leggerezza deve essere, soprattutto, la possibilità del giudice di scegliere l’assetto organizzativo del proprio lavoro.
Se la scelta di tenere udienza in un modo o in un altro è una scelta organizzativa, come tante altre (quante cause fissare nel ruolo di udienza, quante udienze fissare in una settimana o in un mese, quali cause assegnare all’UPP o al tirocinante), occorre rifarsi a ciò che la Costituzione dice in materia di organizzazione dei pubblici uffici, e la Costituzione dice qualcosa che ha sorprendentemente a che fare con la leggerezza. Mi scuso con chi ha già sentito queste cose, ma sono centrali:
- l’art. 97 Costituzione afferma il principio di efficienza come requisito che deve caratterizzare le regole di organizzazione nei pubblici uffici, di qualsiasi fenomeno organizzativo di natura pubblica;
- se nell’esercizio della giurisdizione avvengono fatti di organizzazione e vi sono veri e propri “uffici”, come l’ufficio del processo, l’art. 97 detta i criteri costituzionalmente imposti per delineare le regole di organizzazione anche del fenomeno organizzativo “processo civile”;
- l’interpretazione, a oggi insuperata, dell’art. 97 è elaborata da Mario Nigro negli “Studi sulla funzione organizzatrice della Pubblica Amministrazione” ed è quella per cui la Costituzione fonda, attraverso l’affermazione del principio di efficienza (buon andamento), il potere di auto-organizzazione;
- il risvolto giuridico di buon andamento ed efficienza è l’attribuzione a chi si deve occupare di certi fini, anche se in forma monocratica, di un potere di auto-organizzazione, cioè di mezzi giuridici elastici per consentire di calibrarli sull’attività erogata;
- Nigro enuclea una sorta di regola di chiusura: tutte le volte che l’ordinamento non disponga specificamente in modo diverso, ogni soggetto istituzionalmente preposto ha il potere di (auto)organizzarsi in vista del raggiungimento del fine o dei fini che gli sono attribuiti.
Ma se senz’altro il potere di auto-organizzazione implica flessibilità (concetto che in effetti evoca una leggerezza), resta aperto il discorso dei fini in vista dei quali si adotta la scelta organizzativa, e qui ci raccordiamo nuovamente alla leggerezza, a quel modo di guardare il mondo, o meglio lo spaccato di mondo di cui ci occupiamo, il processo civile, che Calvino ci suggerisce dal suo piccolo libro.
Sotto questo profilo, mi domando se “un’altra ottica, un’altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”, per usare l’espressione dello scrittore, non possano essere le vie per accordarci allo spirito del tempo, in una maniera ovviamente non servile o acritica, ma tenendo presente che il mondo non è più lo stesso di quello in cui è stato adottato il DM di nomina di ciascuno di noi.
E assumendoli come segnali di queste vie, cosa ci chiedono di fare la sinteticità, la chiarezza, la leggerezza, nel processo civile, con l’ausilio degli strumenti informatici, se e nella misura in cui si pongano come espressione, come veicolo dell’attuazione di questi principi (penso ai dati incoraggianti riportati dal Presidente Liccardo con riferimento all’entità dei ruoli)?
La risposta è abbastanza semplice, se ci pensiamo:
Meno sentenze.
Ridurre gli incombenti processuali al minimo indispensabile.
Cercare soluzioni conciliative.
Non fare entrare nella regolazione delle spese la questione del numero delle pagine o della chiarezza.
All’interno delle regole generali, optare per modelli organizzativi flessibili, scegliendo le interpretazioni più favorevoli alla libertà del giudice di organizzarsi nel modo più adeguato in vista dell’obiettivo da raggiungere e del venire incontro alle esigenze dell’utenza.
Perfezionare l’uso del telematico.
Utilizzare, perché no, l’udienza su teams.
Utilizzare, perché no, teams per lavorare con i tirocinanti e gli addetti dell’ufficio del processo (magari solo per gentilezza, perché per loro, non solo per gli avvocati, può essere più comodo).
Non si tratta di un compito facile, come tutto ciò che facciamo nasconde insidie, su questo ci ha avvertito il Presidente, e la possibilità dell’errore, ma questo è ciò che le persone del 2023, quasi 2024, le persone che avranno trenta o quaranta anni nei prossimi dieci o venti anni (per intenderci), potrebbero aspettarsi dalla giurisdizione.
Vorrei fare una riflessione sull’ufficio del processo, che è stato pure codificato, all’art. 58 bis cpc.
Pur nella consapevolezza dei rischi di questo assetto organizzativo, in linea di massima, l’ufficio del processo resta uno di questi segnali di apertura, di cambiamento, nel senso di un lavoro diversificato, reso più fluido, alleggerito, soprattutto non chiuso nelle nostre interne ruminazioni.
Dopo aver impiegato tempo a formare queste persone, che nella maggior parte dei casi forniscono un valido aiuto, perché sprecare questa opportunità e tornare indietro a un assetto, più che monocratico, solipsistico, che non riesco davvero a capire chi possa rimpiangere?
Concludo con un ricordo personale.
Qualche tempo fa mi è capitato di fare un viaggio in Vietnam e in una città il cui nome adesso poco importa ho visitato insieme con i miei compagni un tempio che era stato interamente distrutto durante la guerra contro gli americani. La visita era possibile perché in realtà in parte il tempio era stato ricostruito, ma ciò che le guide segnalavano soprattutto era una colonna, antica, l’unica superstite di tutto il vecchio tempio, risparmiata dalla distruzione della guerra.
L’impressione che ho avuto è che da quell’unica colonna si librasse tutta la devozione di chi si fermava davanti, e che in realtà non aveva molta importanza che intorno ci fosse un tempio nuovo, così come non aveva molta importanza che non ci fosse più quello vecchio, perché nella sua semplicità quella colonna di legno riusciva a sostenere tutta la gratitudine e l’emozione possibili, con leggerezza, ma non per questo senza profondità.
Mi piace pensare che il nostro lavoro possa somigliare a questa colonna, semplice, snella, e senza nessun peso intorno. Questo peso sono le contorsioni statistiche, l’ostensione dimostrativa di standard o sacrifici puramente simbolici, in un ordine di idee in cui dello spirito di servizio resta purtroppo solo lo spirito, perché il vero servizio, pragmatico, veloce, intuitivo, che dobbiamo rendere è ormai oltre certe attitudini, certe nostalgie, perfino certi nobili ideali.
Questa colonna antica ci invita a cercare una legittimazione davanti, e mi piace chiudere così un intervento nel ricordo di una persona, Daria Sbariscia, che, pur non essendoci più, è ancora presente nel cuore di tante persone.
Vi ringrazio.
Relazione del magistrato Dott. Paolo Siracusano svolta in occasione dell’evento “i IN RICORDO DI DARIA SBARISCIA: Un’impronta indelebile nell’avvio del processo telematico a Bologna e nella giurisprudenza in materia industrialistica” organizzato da ADEC in data 1° dicempre 2023